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SCENOGRAFIA VIRTUALE

Ciao ragazzi, ho trovato questo video nel web che considero molto interessante ed ho pensato di condividerlo con voi. Questa è un’occasione per spaziare anche voi nel Web e trovare qualcosa che colga la vostra attenzione ed inviarmelo per poter così farlo conoscere anche ai vostri compagni. BUON LAVORO a tutti.

ARA PACIS

Ciao ragazzi, eccovi una bella ricerca di video trasmessi per TV sull’Ara Pacis fatta da un vostro compagno Marco Bezzon della seconda B . Infatti ha unito questi video in uno solo per rendere più completa la lettura visiva fatta su sull’Ara Pacis Augustae (altare della pace augustea). Io purtroppo non l’ho messo in visione perché risultava troppo lungo, ve ne faccio vedere due distinti (dei quali era caduta anche la scelta del vostro compagno Marco). Spero che la curiosità vi spinga a vederne altri. Buona Visione.
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WPAP ART

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WPAP (di Wedha Pop Art Portrait)

Wedha, originario dell’Indonesia, ha creato la sua opera d’arte con mezzi tradizionali all’inizio del 1990, che più tardi all’inizio del 2000, approdò nel mondo digitale. Vector è la scelta naturale per uno stile di spazi geometrici. Da allora, ha guadagnato grande popolarità in Indonesia, con le diverse comunità dedicate alla creazione e vetrina di ritratti in stile WPAP. Con la ripresa della tendenza geometrica, è giusto dire che WPAP si è avventurato al di fuori dell’Indonesia e in più aspetti del design.
Per creare un WPAP di solito sono usati quei programmi vettoriali tipo Illustrator, Corel Draw o altri con libera licenza tipo Inkscape
L’obiettivo principale di WPAP è di rappresentare i volti che sono già familiari a noi, con uno stile nuovo e diverso, ma ancora deve essere facilmente riconoscibile. Il volto o altra immagine deve essere diverso, unico, più dinamico, più evidente e, naturalmente, più visivamente piacevole da vedere.
Il processo creativo WPAP si basa su due processi principali; il processo sfaccettatura e il processo di colorazione. Nel processo sfaccettatura, tracciando l’immagine, si divide il volto umano in sfaccettature. Ogni aspetto (piano) è formato sulla base dei diversi gradi di aree scure e luminose visibili sulla foto originale. Ogni aspetto è formato da linee rette, invece di linee curve. Questo perché le sfaccettature che sono formate da linee rette appariranno più forti di una sfaccettatura formata da linee curve. Prima di iniziare il processo, dovremmo cominciare a vedere e a riconoscere che il volto umano assuma una forma che si compone di molte superfici piane su una sfera.

L’arte WPAP, ha continuato a svilupparsi in molti campi e oltre il volto molti sono i soggetti che utilizzano questo stile. Qui sotto abbiamo altre foto prese da internet e una pubblicità fatta per l’Università di Padova che si rifà a questo stile.
Se volete vedere molte altre immagini e tutorial basta scrivere nel motore di ricerca: WPAP ART

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Visita al Teatro Comunale di Treviso – Scenografia

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“Riccardo III” è il titolo della commedia che è stata rappresentata con questa scenografia. Il video  è stato fatto e inviato dal prof. S. Santori. IL risultato è decisamente molto buono ed è interessante anche per tutti noi. GRAZIE , per il tuo bel lavoro.

Jacque Fresco: quando progettare è mettere in relazione risorse e sistemi di genere diverso ma tutti tra loro connessi

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progettare oggi dentro il futuro è tenere conto degli scambi, delle connessioni delle trasformazioni dell’uso e del riutilizzo senza spreco e senza inquinamento mantenendo vive le relazioni tra tutti i componenti del sistema. Il Progetto Venus di Fresco analizza e produce questo genere di processo.

APPUNTI ARCHITETTURA 3 A/ 3B: Elementi e caratteri dell’architettura fascista- II

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Gli eventi di massa del fascismo avvengono infatti soprattutto nelle grandi città, in primo luogo a Roma, ridotta a puro feticcio della ‘romanità’.

Ciò che spaventa è il fatto che nel contesto urbano le organizzazioni operaie sono più forti e sboccano più facilmente in azioni sovversive; Torino si distingue tra tutte: nel 1920 aveva visto dilagare gli scioperi operai, fino all’atto estremo di occupazione delle fabbriche.
Le città sono anche il luogo dove i ‘vizi’ della modernità hanno le loro conseguenze più deleterie, in particolare sulla natalità.
Tutto questo non impedisce tuttavia che ci si occupi anche dei problemi urbani, soprattutto con programmi di sventramento in base a presupposti di natura igienico-sanitari; ma anche con la creazione di quartieri nuovi (come il Foro Italico, l’Eur e la città universitaria a Roma) o di riqualificazione architettonico-urbanistica come a Torino (rifacimento di via Roma), Bolzano (Arco della Vittoria), piazze della Vittoria (Genova e Brescia) e Firenze (stazione ferroviaria).

Per contrastare la disgregazione sociale e le tentazioni sovversive di una società avviata verso l’industrializzazione[13] il fascismo punta pertanto alla creazione di nuove comunità piccole e medie in area agricola, destinate a diventare sedi privilegiate della nascente ‘civiltà rurale’, terzo elemento di una filosofia dello Stato che sta prendendo corpo. Lì i coloni non abitano intorno al centro cittadino per andare di giorno a lavorare i campi e tornare la sera, com’è nei borghi del meridione, ma vivono isolati sul loro podere e si spostano in centro solo quando necessario[14]. In questo modo si vogliono ridurre anche i rischi di destabilizzazione rappresentati dai collettivi bracciantili, soprattutto in Veneto e in Emilia Romagna.

A seguito di questo programma, nel ventennio ben 2 milioni e 400 mila ettari di terreno vengono trasferiti dalla grande e media proprietà terriera ai coloni, piccoli proprietari ‘sproletarizzati’. Operazione analoga, ma senza trasferimento di proprietà, è costituita dal piano detto ‘Cini, Balbo, Klinger’ nel ferrarese, che prevede di ricavare dalle grandi aziende 16.000 poderi di 10 ettari ciascuno da assegnare ai braccianti in regime di mezzadria. In tal modo si spera di legarli alla terra e di farli scomparire come categoria (a metà degli anni ’30 i braccianti erano 170.000 unità, mentre affittuari e mezzadri con le loro famiglie raggiungevano appena le 70.000).

esistenze, scioperi e atti di sabotaggio contro l’ONC non si contano. D’altra parte è risaputo che solo il 58% dei lavori di bonifica viene portato a termine e che poco più di un terzo dei progetti di irrigazione viene completato anche perché manca un’efficace programmazione nazionale. In particolare, poiché era più facile programmare i tempi delle costruzioni edilizie che non quelli della bonifica dei terreni, i coloni spesso ricevevano una casa fresca di muratura ma un appezzamento ben lontano dall’essere un podere produttivo[9]. Anche la ‘battaglia demografica’ lanciata da Mussolini con premi assegnati alle famiglie prolifiche, non raggiunge il suo obiettivo: la natalità tra i coloni scende addirittura sotto la media nazionale. Dal canto loro i dati della produzione agricola sono troppo incerti perché si possa fare un reale bilancio degli effetti della bonifica integrale[10]. Per quanto riguarda infine l’occupazione, dopo una prima flessione tra 1923 e 1926, la disoccupazione aumenta per raggiungere il picco di 1.300.000 unità nel 1933 e attestarsi sul milione negli anni immediatamente successivi; anche l’incremento di occupazione dovuta all’attività di bonifica rimane scarsamente rilevante.

Il programma evidentemente non raggiunge i frutti sperati se, ancora nel 1934 (18 marzo), Mussolini impartisce una direttiva che fissa gli obiettivi dell’appoderamento: ”La parola d’ordine è questa: entro alcuni decenni tutti i rurali d’Italia devono avere una casa vasta e sana […] Solo così si combatte il nefasto urbanesimo; solo così si possono ricondurre ai villaggi ed ai campi gli illusi e i delusi che hanno assottigliato le vecchie famiglie per inseguire i miraggi cittadini del salario in contanti e del facile divertimento”[11].

2. Urbanesimo e ruralità: due modelli in conflitto

Per quanto riguarda la ruralizzazione il regime, e Mussolini in prima persona, vivono una situazione contraddittoria[12], non solo e non tanto per la centralità assegnata all’industria nella politica economica nazionale, ma anche per il ruolo che le città continuano necessariamente a ricoprire, oltre che ai fini produttivi, nella politica del consenso. Gli eventi di massa del fascismo avvengono infatti soprattutto nelle grandi città, in primo luogo a Roma, ridotta a puro feticcio della ‘romanità’.

Ciò che spaventa è il fatto che nel contesto urbano le organizzazioni operaie sono più forti e sboccano più facilmente in azioni sovversive; Torino si distingue tra tutte: nel 1920 aveva visto dilagare gli scioperi operai, fino all’atto estremo di occupazione delle fabbriche.
Le città sono anche il luogo dove i ‘vizi’ della modernità hanno le loro conseguenze più deleterie, in particolare sulla natalità.
Tutto questo non impedisce tuttavia che ci si occupi anche dei problemi urbani, soprattutto con programmi di sventramento in base a presupposti di natura igienico-sanitari; ma anche con la creazione di quartieri nuovi (come il Foro Italico, l’Eur e la città universitaria a Roma) o di riqualificazione architettonico-urbanistica come a Torino (rifacimento di via Roma), Bolzano (Arco della Vittoria), piazze della Vittoria (Genova e Brescia) e Firenze (stazione ferroviaria).

Per contrastare la disgregazione sociale e le tentazioni sovversive di una società avviata verso l’industrializzazione[13] il fascismo punta pertanto alla creazione di nuove comunità piccole e medie in area agricola, destinate a diventare sedi privilegiate della nascente ‘civiltà rurale’, terzo elemento di una filosofia dello Stato che sta prendendo corpo. Lì i coloni non abitano intorno al centro cittadino per andare di giorno a lavorare i campi e tornare la sera, com’è nei borghi del meridione, ma vivono isolati sul loro podere e si spostano in centro solo quando necessario[14]. In questo modo si vogliono ridurre anche i rischi di destabilizzazione rappresentati dai collettivi bracciantili, soprattutto in Veneto e in Emilia Romagna.

3. Caratteristiche dei borghi di fondazione

I nuovi centri sono costituiti fondamentalmente delle sedi dei servizi e delle istituzioni, tra le quali primeggiano la casa del fascio e la torre littoria, sostituto fascista di quella civica, e la chiesa.
Come osserva Mariani queste nuove entità urbane rivelano la “volontà di costruire città che non siano città, riformare la società italiana esaltando la campagna con sistemi e modi ‘urbani’, proporre una ‘nuova società’ su basi pseudotradizionaliste”[15]. Questo deriva con  ogni probabilità dalla compresenza, all’interno del fascismo, di posizioni differenti se non contrapposte. Si coglie probabilmente la vera natura dei nuovi borghi attraverso la definizione che ne dà Luigi Piccinato, nel 1934: ”Esse non sono città ma centri comunali agricoli; […] il fine di esse non è quello di vivere alle spalle della bonifica dei terreni, ma all’opposto esse sono sorte al servizio della bonifica”[16].

Informazioni di massima su tecniche e materiali si possono invece dedurre dalla relazione del piano regolatore di Pontinia dal quale viene in luce anche una sostanziale approssimazione nell’affrontare l’organizzazione degli spazi: “I progetti tutti sono stati studiati con la collaborazione artistica dell’architetto Oriolo Frezzotti. L’architettura dei singoli fabbricati è ispirata dalla ruralità dell’ambiente, facendo predominare il motivo che gioca sul contrasto del paramento a cortina di mattoni con varie tinte su intonaco e limitatissimi rivestimenti in travertino o finto travertino. Nelle piante si è cercato di distribuire i diversi vani in modo da ottenere il massimo rendimento in rapporto allo scopo al quale i fabbricati stessi devono servire”[18].

Come si vede l’orientamento formale proposto, soprattutto per gli edifici di abitazione è la ‘rusticità’, coniugata con l’impronta tradizionale italiana. Scrivono in proposito Nuti e Martinelli: “Colori e materiali delle città nuove rientrano anch’essi nella tradizione nazionale, verso cui respingeva inesorabilmente lo spettro dell’autarchia e la messa al bando del cemento armato, del ferro e del vetro. La muratura ordinaria coperta di intonaci chiari costituisce la facies della città mentre è limitato e dosato l’impiego del mattone a faccia vista, del marmo chiaro e poroso (travertino, peperino) a grandi lastre per rivestimenti e zoccolature […]”[19]. E ancora: “La dimensione strapaesana rimane il dato più evidente e comune a tutte le città nuove, dove la ruralità viene realizzata per trasposizione, ruralizzando cioè un’immagine cittadina profondamente radicata nella storia italiana, quella della gloriosa città stato comunale, rozzamente rivisitata dall’ideologia fascista”[20].

L’espressione Casa del Popolo compare per la prima volta in Italia tra l’8 e il 10 settembre 1893 durante il secondo congresso socialista a Reggio Emilia, in occasione del quale fu inaugurata la nuova sede della cooperativa di Massenzatico, un paese nei pressi di Reggio Emilia.

Le Case del Popolo hanno radici anche nelle esperienze europee della Maison du peuple francese, belga e svizzera (la prima Casa del Popolo svizzera sorse nel 1899 a San Gallo), della Volkshaus tedesca e della Volkshuis olandese.

Ne sono esempi la Maison du Peuple di Bruxelles, chiamata anche, in fiammingo, Volkshuis van Brussel, la Maison du Peuple di Nancy, la Maison du Peuple de Clichy.

La Casa del Popolo risponde ad esigenze di sviluppo e funzionamento di cooperative di lavoro e consumo e di un complesso di servizi culturali, assistenziali, mutualistici e ricreativi.

Culturalmente rappresenta la visibilità del movimento, la sua stabilità, l’unità e la solidarietà popolari, la dimostrazione pubblica della propria capacità etica e tecnica, il senso di un profondo radicamento sul territorio, la conservazione della memoria.

Infine, essa simboleggia il centro coordinatore dell’insieme associativo socialista, il modello della futura società, il nucleo di un socialismo che si sarebbe gradatamente allargato fino a comprendere il comune, la vita economica e l’intera società civile. In questo senso, la Casa del Popolo contiene la speranza della società futura e dell’uomo nuovo socialista. In Friuli la prima casa del popolo fu fondata nel 1909-1911 a Torre, sobborgo operaio di Pordenone ove nel 1840 era stato costruito il primo dei grandi cotonifici della zona; fu inaugurata il 1º maggio 1911 (cfr. http://www.casadelpopolo.org). Seguì nel 1913 quella di Prato Carnico (Comune di montagna che all’epoca aveva 2500 abitanti) ed era stata finanziata e costruita dagli emigrati (Circa la metà della popolazione) che mandarono i soldi per i materiali dalla Francia,Germania,Usa,ecc. e dai lavoratori della valle Pesarina. Prima della guerra era stata ribattezzata dal regime in Casa del Littorio. Dopo il restauro del 1947 riprese il suo nome originale che conserva ancora oggi sebbene dal 2010 sia stata trasformata dal comune in albergo-ristorante. In Abruzzo la prima Casa del Popolo fu fondata da Umberto Postiglione, a Raiano, nei primi anni venti.

Storia

Dopo l’avvento al potere del fascismo vennero costruiti, come sedi del PNF, edifici ad hoc, una stima calcola che ne venissero realizzati circa 5.000[1], moltissimi creati ex novo da architetti del movimento razionalista tra i quali Adalberto Libera, Saverio Muratori, Ludovico Quaroni, Giuseppe Samonà e Giuseppe Terragni. Non mancarono edifici realizzati da architetti della tendenza storicista e altri da architetti “novecentisti”.

Le case del Fascio istituite furono in tutto circa 11.000. Non tutte furono ospitate in edifici costruiti ad hoc, anzi, la maggioranza, soprattutto nei centri minori, fu istituita semplicemente affittando, acquistando o acquisendo in uso edifici esistenti, non di rado senza neanche condurre significative ristrutturazioni funzionali ed estetiche, pur previste in diversi casi[2]

La casa del Fascio divenne un elemento irrinunciabile nelle successive città di fondazione e in molti dei nuovi borghi rurali, assieme alla chiesa e al municipio, in quelli destinati a essere eletti a comune. Oltre che in Italia, tali edifici vennero costruiti anche nelle colonie, dall’Africa al Dodecaneso.

Durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana alcune diventarono sedi del Partito Fascista Repubblicano (19431945), erede del Partito Nazionale Fascista.

Nel secondo dopoguerra, tali immobili furono devoluti allo Stato per effetto delle disposizioni contenute nell’articolo 38 del DLL 27 luglio 1944, n. 159, recante “Sanzioni contro il fascismo”.

Il Cus Padova e la memoria del Novecento

L’attuale sede di via Giordano Bruno fu inaugurata da Benito Mussolini nel 1938

PADOVA. Basta alzare lo sguardo. Da una parte ci sono le cupole di Santa Giustina, dall’altra lo stadio Appiani. A fare da collante Prato della Valle. Da qui per arrivare agli impianti del Cus, proprietà dell’Università di Padova, ci sono appena duecento metri. A rendere funzionanti le due strutture di via Giordano Bruno e a tenerle aperte per 360 giorni all’anno, è il lavoro di una dozzina di dipendenti, a cui va aggiunta l’attività di un altro centinaio di persone tra tecnici, preparatori atletici e dirigenti tutti volontari. Ventimila metri quadrati dove è possibile trovare la storica palestra polivalente (pallavolo, hockey, pallacanestro, pallamano), una palestra per la scherma, una per lo judo, quattro campi da tennis in terra battuta scoperti e illuminati e un campo da calcio a 5.

Ogni avventura umana, e quella del Centro Sportivo Universitario di Padova (Cus) è legata a luoghi, date, a uomini e donne, all’intrecciarsi delle loro vite, dei loro sogni, delle loro aspirazioni, delle loro intuizioni, dei loro errori. Quella che raccontiamo è una storia lunga, che ha attraversato buona parte del Novecento, portandosi dietro il sacrificio e le illusioni di chi ha visto l’Italia vivere a pieno le grandi speranze offerte dalla scienza, due tragiche guerre mondiali, il momento della rinascita, il boom economico, la sfida del terrorismo, la speranza del terzo millennio. Quella che oggi è la sede del Cus nasce come Gruppo Rionale Fascista Bonservizi, inaugurato da Benito Mussolini sabato 24 settembre 1938. Il nome Bonservizi dice poco ai padovani, se non a quelli più anziani che ne ricordano l’intero complesso. In realtà la denominazione Bonservizi non nasce dalla qualità dei servizi offerti. Bonservizi è stato un uomo, un attivista che, peraltro con Padova c’entrava davvero poco.

Nicola Bonservizi nasce il 2 dicembre 1890 a Urbisaglia in provincia di Macerata. Figlio primogenito di Caterina Brunelli e Adolfo Bonservizi, suo malgrado finisce catapultato agli onori della nostra città grazie all’amicizia con Mussolini. Fervente interventista come tenente di artiglieria, Bonservizi collabora alla rivista Utopia che il futuro Duce fonda dopo l’uscita dall’Avanti e dal partito Socialista. Fascista della prima ora (era in piazza San Sepolcro a Milano quando il 23 marzo 1919 nascono i Fasci italiani di Combattimento), il giovane giornalista marchigiano lavora come redattore fin dalla fondazione al Popolo d’Italia. Nel 1920 decide di trasferirsi a Parigi, dove ricopre l’incarico di corrispondente, sempre per conto del Popolo d’Italia, e dove fonda il settimanale Italie nouvelle. Attivissimo, appassionato, nel 1921 è nominato delegato politico del partito fascista in Francia. Fece una brutta fine: ferito il 20 marzo 1924 dall’anarchico Enrico Bonomini mentre si trovava nel ristorante Savoia, muore sei giorni dopo, il 26 marzo. Dopo le onoranze funebri celebrate a Parigi, la salma è trasportata a Milano dove ad attenderla c’è Benito Mussolini. Per ricordare Nicola Bonservizi nel 1936 si modifica il nome del Comune da Urbisaglia in Urbisaglia-Bonservizi, denominazione mantenuta ufficialmente fino al 1945, nei giorni successivi alla Liberazione quando fu poi smantellato ogni ricordo con il regime. Sembra che fu lo stesso Benito Mussolini a volere che la sede del Gruppo Rionale Fascista di Padova, realizzata da Quirino De Giorgio su un’area di 8.454 metri quadrati, fosse dedicata a Nicola Bonservizi. Il complesso, nato a ridosso delle mure cinquecentesche e confinante con via Giordano Bruno, fu progettato come due corpi di fabbrica orizzontali che lasciassero vedere le mura retrostanti. Un’esauriente descrizione del Gruppo Rionale Fascista Bonservizi è contenuta nel fascicolo I luoghi della memoria realizzato da Roberto Bettella ed Emilio Mainini in collaborazione con Roberto Conte e Paola Pizzo per conto del Comune di Padova.

«Per analogia con i bastioni», si legge nel centinaio di pagine del volumetto, «De Giorgio usò materiale di cotto a faccia a vista lavorato con mattone sporgente e una tavella rientrante che creano continue nervature orizzontali. In un corpo di fabbrica vennero sistemati al primo piano gli uffici, e al piano terreno il Dopolavoro; in un altro venne creata la sala delle riunioni. Le due costruzioni vennero unite da un corridoio a vetri. Accanto a queste due parti De Giorgio costruì la torre su via Giordano Bruno, unita alla sala per mezzo del vestibolo a giorno, ad archi. La torre termina con un giro d’aquile a sbalzo e con aperture a feritoie. Sopra la porta d’entrata la Vittoria fascista a bassorilievo in cotto, mentre teste di leone, pure in cotto, aggettano dalle superfici piene della sala. Le pareti dell’atrio erano rivestite da lastre in pietra tenera con simboli dovuti ad Amleto Sartori. Nel muro di fondo della sala un affresco rappresentava la gioventù del Littorio, l’Italia guerriera e lavoratrice, la Maternità e la Donna italiana. Lo spazio tra la sede e le mura cinquecentesche venne adibito a teatro dei Tremila per le rappresentazioni teatrali estive, mentre nello spazio tra la sede e il bastione venne costruito il teatro dei Diecimila per le manifestazioni liriche all’aperto. L’edificio era utilizzato soprattutto nelle riunioni del Partito Nazionale Fascista, per le varie categorie ed età o per rievocazioni e celebrazioni. Serviva spesso per attività ricreative che prevedevano l’organizzazione di rappresentazioni teatrali, quasi sempre di compagnie amatoriali, di spettacoli per bambini».

Quello che qualche anno dopo diventerà il cuore della Padova universitaria che ama lo sport, già da allora era legato ad attività sportiva, in particolare con la buona stagione, a gare di bocce che si svolgevano nei campi di via d’Aquapendente, nell’allora sede della trattoria Giaba. Dopo l’8 settembre 1943 il Bonservizi scompare dalle pagine dei quotidiani cittadini a testimonianza di una diversa e più riservata destinazione d’uso: il complesso ospita la sede del comando del battaglione Ettore Muti e della diciottesima brigata nera Begon, diventando anche teatro di violenze nei confronti di antifascisti. Sono anni di grandi sofferenze e dolori quelli che legano la storia padovana alla fine della seconda guerra mondiale. Il Gruppo Rionale di via Giordano Bruno perde la sua funzione di centro di aggregazione per trasformarsi sempre più in strumento di becero potere politico. La conclusione del conflitto lo vedrà ancora lì, non più nella vecchia denominazione dedicata al giornalista Nicola Bonservizi, ma pur sempre nell’originaria filosofia di luogo dove potersi ritrovare, stare insieme. Per fare sport, per crescere fisicamente e intellettualmente. A muoversi per primi sono gli studenti dell’Università di Padova che sentono forte l’esigenza di ricominciare. Significativa è la data di lunedì 28 maggio 1945 che decreta la nascita dell’Associazione Universitaria Studentesca (Aus). Alle ore 10 in via 8 febbraio, nel cortile del Bo, si ritrovano in diciotto che votano la nomina del presidente Ennio Ronchitelli, del vice presidente Gelserino Graziato e di Pilade Tosi che si deve occupare di sport. Funge da segretario provvisorio Aldo Fior. Il nascente Aus chiede aiuto al commissario facente funzioni di Rettore, Concetto Marchesi. Alberto Pettinella, già addetto allo sport ai tempi dei Gruppi Universitari Fascisti e che per mezzo secolo sarà l’anima del Cus Padova, torna alla ribalta il 1 ottobre, sempre del 1945. In occasione di un’animata assemblea studentesca Ennio Ronchitelli riesce a fargli affidare il settore sport nonostante qualcuno rinfacciasse a Pettinella la vecchia appartenenza ai Guf. Ma Ronchitelli ben conosce la tempra e le grandi capacità di questo ragazzo che la guerra ha minato nel fisico, non certo nel carattere. C’è da fare tutto, soprattutto organizzare. E Alberto Pettinella in questo è davvero un maestro. È lui il 22 marzo 1946 a far arrivare a Padova i rappresentanti di sette Università italiane, più altri sei per delega. La storica riunione che sancisce la nascita del Cus Padova e del Cusi (Centro Sportivo Universitario Italiano) si svolge nell’aula Trentin di Giurisprudenza. Inizia una fantastica avventura che vede il Cus Padova portare ai vertici dello sport italiano centinaia di donne e uomini, campioni veri.

Da Casa del Fascio (mai utilizzata), a cinema parrocchiale, a biblioteca comunale

Nel Padovano Andrea Viviani recupera un’opera realizzata da Quirino De Giorgio negli anni quaranta

PIAZZOLA SUL BRENTA (PADOVA). Dopo venticinque anni di parziale abbandono, e scarsissima manutenzione, risorge a nuova vita la Casa del Fascio progettata da Quirino De Giorgio nel 1938, grazie alla realizzazione della nuova biblioteca del comune padovano inaugurata il 16 giugno (su progetto di Andrea Viviani), nel quadro della realizzazione per tappe del Centro culturale Andrea Mantegna. Progettato nel 1938 e realizzato tra il 1940 e il 1946, l’edificio non è mai stato utilizzato per la sua funzione originaria, per ovvii motivi. Basato su di un impianto a L che maschera così lo scarso spessore dei due corpi, affacciati uno a nord e l’altro a ovest, con un porticato colonnato che sembra applicato all’edifico, il progetto originario prevedeva una grande sala delle adunanze (a doppia altezza) nel corpo ovest e altri locali di servizio in quello nord, sviluppato su due piani (bar e abitazione del gestore). Nel punto d’intersezione delle due ali, gli spazi principali di collegamento verticali. L’edificio è entrato a far parte del patrimonio ecclesiastico nella seconda metà degli anni ’50; la grande sala è stata così trasformata in cinema parrocchiale (realizzando i locali tecnici per il sistema di proiezione e tamponando le aperture originarie sul fronte porticato), attivo fino agli inizi degli anni ’80, quando l’amministrazione comunale è diventata proprietaria degli spazi. L’intervento svuota la sala, ripristinando così sia il grande volume aperto sia le aperture originarie lungo il fronte ovest, predisponendola alla nuova funzione. L’adeguamento alla normativa antisismica impone l’inserimento di una gabbia metallica come struttura supplementare, motivo di approfondimento progettuale molto dettagliato, mentre le necessità funzionali suggeriscono l’apertura di un grande lucernario sulla porzione ovest del tetto. In particolare, il progetto recupera “gli assetti e le aperture previsti da Quirino De Giorgio liberando i volumi esterni e interni da tutte le superfetazioni, mantenendo comunque tracce della sua storia passata (è stato demolito il palcoscenico e il boccascena interno così come il controsoffitto in tavolato di cotto […] ma sono stati mantenuti i fori di proiezione aperti sul muro opposto), realizzando alcune memorie di cose che lui aveva pensato ma di cui non è rimasta traccia, come il podio sulla scalinata ovest che il progetto ha riproposto in due podi obliqui e distinti.” Il progetto della biblioteca s’inserisce nella cornice d’interventi destinati alla cultura che l’amministrazione comunale sta effettuando, che comprendono anche la costruzione di un nuovo auditorium, a nord-est dell’edificio di De Giorgio, oltre che la sistemazione degli spazi esterni di collegamento con la grande piazza semicircolare prospiciente Villa Contarini. Dopo un’iniziale ipotesi di mantenimento della funzione cinematografica, il tema si è trasformato: “Il progetto vuole invece ricavare negli spazi del vecchio edificio una moderna biblioteca, ricca di sale letture aperte alla stampa locale come a internet. La costruzione di un nuovo edificio da adibire ad auditorium polivalente, a doppia sala, sarà in grado di soddisfare la richiesta di film, ma anche la necessità di svolgere convegni, mostre, performance teatrali e musicali, in uno spazio concepito unicamente per tale scopo”. Nell’ex cinema troveranno spazio, oltre alla Biblioteca, referente delle 11 biblioteche del bacino bibliotecario locale, altre funzioni pubbliche: centro pubblico di connettività, informagiovani, spazio ludoteca, emeroteca e aula studio. L’ala restaurata è stata completamente isolata termicamente dall’interno, adeguandosi alle norme della legge 10 sul consumo energetico; è stato realizzato un impianto di riscaldamento/raffrescamento a pavimento (il quale è in legno industriale) con caldaia a condensazione a basso consumo. Le vetrate sono tutte a camera, di tipo ibrido stop sol / basso emissive. I lavori, dall’importo di 1,2 milioni, sono stati sostenuti dall’amministrazione comunale e da un contributo della Fondazione della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo (500.000 euro).

di Julian W. Adda, edizione online, 24 giugno 2013
 

altri riferimenti in rete

http://www.ilgiornaledellarchitettura.com/articoli/2013/6/116778.html

http://europaconcorsi.com/albo/21-Ordine-degli-Architetti-Pianificatori-Paesaggisti-e-Conservatori-della-provincia-di-Pordenone/projects/19951-Stefano-Santarossa-Luciana-Copat-Michele-Biz-Roberto-Pilat-Gaya/images/629700

http://www.artefascista.it/pordenone__arte__italiana__del.htm

APPUNTI ARCHITETTURA 3 A/ 3B: Elementi e caratteri dell’architettura fascista

terragni casa del popolo comoAnalizzando il clima culturale nel quale è nata l’opera più importante di Giuseppe Terragni: la Casa del Fascio, la corrente pittorica del Novecento è un elemento fondamentale per comprendere il clima generale all’interno del quale si muove il paese.
Il Futurismo è un’avanguardia che lega cultura, politica e storia.
Dopo la guerra si ha il cosi detto “ritorno all’ordine”,i pittori della stagione futurista che incontrano il mondo del volume e del chiaroscuro, concetti d’importanza fondamentale anche nell’architettura.
Una figura importante in questa direzione è Margherita Sarfatti.
In questo clima di cambiamento l’architettura ha una presenza dominante
Accanto a questo, si sviluppa un altro filone che si fonda sulle ricerche astratte del panorama internazionale e che vede come protagonisti Radice e Sironi, che portano avanti però due tendenze completamente opposte.
Un altro esponente importante  è Carla Prina, moglie dell’architetto futurista Sartoris.

Il motivo caratteristico è un meccanismo generativo della forma che è presente in molte opere di Terragni.

La Casa del Fascio – La tipologia è quella a corte, ma è anche un’operazione progettuale che mette in relazione l’esterno con l’interno. La sfida è quella di riuscire a mettere insieme una serie di opposti sia espressivi che simbolici: la trasparenza contro la pietra, il linguaggio contro il simbolo l’astrattismo con la massa.
Il contesto nel quale s’inserisce è abbastanza complicato, un’opera pubblica celebrativa influenzata dal clima della pittura del Novecento, permeato dalla presenza del volume, ma soprattutto dalla tendenza astratta dell’autore e dei suoi mondi in contraddizione.
Lo spazio si genera da un’idea di tripartizione in tutte le dimensioni dell’edificio, è un semicubo in cui l’altezza è la metà della dimensione orizzontale.
L’atrio centrale diviene il perno del progetto, l’elemento coperto da una lunga vetrata orizzontale, che attraverso la precisione delle proporzioni armonizza l’opera.
Il progetto non appiattisce le contraddizioni, ma le potenzia rendendole arte:
non si pone nel contesto in modo mimetico,e usa una forma primaria.Ma non è un cubo troppo statico,bensì un semicubo, che spinge ai lati.
Rapporto tra esterno e interno: ha l’invaso creato dal duomo e dalla casa del fascio, non lo isola, ma crea una continuità unendo lo spazio vuoto interno della casa del fascio con la piazza antistante; all’interno questo spazio aperto viene ricollegato alla scala umana abbassandone la dimensione verticale.
Poi per risolvere definitivamente questo volume puro interviene disegnando dei prospetti che sono il frutto di un unico disegno continuo;partiziona in modo verticale questa fascia continua in modo da creare un costante dinamismo che gira intorna all’edificio senza fermarsi nei punti critici (angoli).Dinamica astratta,non legata al movimento umano, infatti la casa del fascio la posso anche ribaltare e la sua dinamica funziona ugualmente.

Casa Rustici

Anche in questo caso non si parla di casa a corte, ma di un rapporto diverso tra casa e città.
Crea un nuovo tipo edilizio: due corpi distinti annullano lo schema della corte interna e in facciata un grande telaio unifica la costruzione dando profondità agli spazi.

Asilo Sant’Elia

anche qui c’è uno spazio tripartito con episodi di movimenti fantastici nella fascia centrale, questo tema verrà approfondito in seguito.

L’Asilo Sant’Elia rappresenta il capolavoro di Terragni che realizza nel 1936, nel momento in cui il regime si trovava nella fase di massimo splendore.
Tutta l’opera è basata su ragionamenti di scala complessi in cui le proporzioni divengono fondamentali.
I temi al suo interno sono in parte evidenti, in parte sublimati:

_La torre :
Elemento fondamentale per Como perché rappresenta l’autonomia della città, è un tema ricorrente in tutta l’opera di Terragni;in un primo momento sembra non far parte della scena, comunque prima d’ora non era mai stata descritta; in realtà Terragni entra in rapporto con la torre anche se non risulta assodato nel progetto.
Simboleggia la presenza del volume unitario, compatto e della massa, la necessità per l’architetto di entrare in rapporto con il passato e con la memoria della storia.

_Approccio funzionale :
Relativo allo studio del sistema delle aule e dell’illuminazione; un approccio estremamente qualificante per il periodo.

_Linguaggio di derivazione astratta :
Tutto proiettato verso una componente di asimmetria e dinamismo.

_Presenza del motivo della tripartizione degli spazi.

_Tema del telaio

La sintesi eccezionale avviene grazie all’inserimento delle natura all’interno del progetto, che diviene elemento trainante e nuovo, caratterizzante e decisivo.
Questo rappresenta una prima importante innovazione, il vero cuore e motore di tutto l’edificio.
La relazione forte tra architettura e natura è indispensabile per fare un asilo, poiché tiene in considerazione il fatto che i bambini hanno bisogno di un rapporto organico con la natura e questo è reso possibile attraverso l’organizzazione tripartita.

Lo spazio centrale è quindi quello che ingloba il concetto della natura, è il cuore-verde del progetto; le altre scelte avvengono in modo molto naturale.
Si organizza un insieme di quattro aule esposte nella migliore posizione, realizza delle pareti mobili per organizzare le attività in comune, in testata mette uno spogliatoio, mentre nell’altra fascia colloca la mensa e altre piccole strutture di appoggio.
Dal punto di vista funzionale il tutto è risolto in maniera tradizionale, con la separazione delle funzioni (aule, cucina, accesso).

La fascia verde centrale deve funzionare in maniera più dinamica possibile deve essere l’opposto dell’idea classica delgiardino e per fare ciò Terragni decide che lo spazio centrale si deve muovere come una sequenza di eventi trasversali per dare un insita dinamicità alla struttura e questo avviene con una prima operazione di slittamento rispetto all’asse orizzontale; lo spazio si rivela all’esterno.
Lo spazio dell’atrio è sovradimensionato e non così indispensabile da un punto di vista puramente funzionale, ma risulta bello per i suoi rapporti proporzionali, è dilatato e rappresenta il tramite tra città e spazio verde; si traguarda la città si vivono due mondi contemporaneamente
Il telaio staccato è un vero punto fermo del progetto, rappresenta una serie di significati trattati in maniera accennata.
Esiste inoltre un doppio movimento: uno lungo l’asse longitudinale ed un altro, ancora più forte, lungo l’asse trasversale.
Il tutto avviene attraverso movimenti di spinte opposte e bilanciate.

Il tema della torre è risolto con una strategia semplice ed efficace che crea il binomio torre-colle come elemento fondamentale dello spazio centrale e lo enfatizza grazie ad un percorso ascensionale che serve a traguardare la corte in modo diretto e assiale e conduce alla visione della torre stessa.

Giuseppe Terragni durante la sua vita di progettista si è trovato più di una volta a realizzare opere troppo innovative per i suoi contemporanei, che destarono orrore e scandalo, perchè distruggevano quelli che fino ad allora erano stati dei punti fermi e quindi impossibile da superare.
La prima importante opera che destò una grande quantità di polemiche, addirittura da pensare di poterla abbattere, fu sicuramente il Novocomum.
Un casa di abitazioni che sconvolge tutti i dettami della imperante logica rinascinamentale, per diventare il primo edificio moderno realizzato in Italia.
Terragni ha il coraggio di fare quello che nessuno in Italia aveva ancora tentato, e lo fa aggirando il sistema stesso, consegna un progetto in stile “classico” alla commissione per farlo approvare e poi, invece, costruisce un edificio totalmente differente, che genera l’aspettato coro di proteste.
Il Novocomum distrugge tutti quelle che erano le regole del modello rinascimentale : la simmetria centrale , il rafforzamento dell’angolo che viene invece svuotato, lo schema base-elevazione-cornicione-attico, la sezione del Novocomum è, infatti, esattamente il ribaltamento di questo tradizionale schema rinascimentale.
Con questa operazioni Terragni porta l’architettura italiana finalmente in Europa, avvicinandosi alle teorie di Le Corbusier sulle abitazioni, all’uso della trasparenza predicato dal Bauhaus, al nuovo modello dell’architettura moderna insomma.

Un’altra importante tappa nel suo viaggio verso la modernità è sicuramente la Casa del Fascio di Como, dove pur credendo nell’ideologia fascista la sua opera non desterà poche polemiche da parte degli stessi committenti che pensavano ad un’opera monumentale ancora alla maniera classica.
Terragni, invece, realizza un “oggetto”, un “mezzo cubo perfetto e bianco.Un prisma astratto, senza basamento, elevazione, cornicioni che si riverbera in una piazza anch’essa bianca e liscia.” [Da Antonino Saggio,”Giuseppe Terragni Vita e Opere “,Edizioni La Terza,Roma-Bari 2004]
Il trattamento dei prospetti è poi totalmente innovativo, ognuno prelude la vista del successivo, con la realizzazione di asole verticali contrapposte a parti chiuse e l’uso del telaio (altra fondamentale invenzione).
La stessa pianta, che ad un primo frettoloso sguardo, può sembrare simile alla tipologia a corte, in realtà se ne distacca completamente, mettendo in relazione l’interno con l’esterno, si genera così un movimento verso l’interno, dall’immagine esterna di volume stereometrico si è portati a scoprire la complessità dello spazio interno.

Più tardi in un’altra casa di abitazione, Terragni si troverà a sconvolgere l’usuale schema a cortile interno, generando nuovamente numerose polemiche che ritarderanno molto la realizzazione dell’opera.
Nella Casa Rustici, infatti, Terragni, divide il lotto in tre parti uguali e dispone ortogonalmente alla strada due corpi di fabbrica distinti tra loro, lasciando un asola centrale.
Il tutto è poi riunito con un sistema di passerelle in facciata, che schermano il vuoto centrale e sancisono il definitivo annullamento del blocco chiuso.
Ancora una volta Terragni ha avuto il coraggio di opporsi ai modelli prestabiliti dalla pratica usuale, e di realizzare un opera che ha il chiaro scopo di distruggere il blocco chiuso in una città, Milano, pianificata per la realizzazione principalmente proprio di blocchi chiusi.

La lezione di Terragni è quindi più che mai attuale, trovandoci noi in un epoca di rivoluzione, dove molti hanno tentato le più svariate sperimentazioni, e spesso si sono trovati a doversi scontrare con un sistema non ancora pronto ad accoglierli.
Allo stesso tempo, però, in questa epoca di cambiamenti, altrettanti numerosi progettisti pensano che il fatto di sperimentare nuove tecnologie e addentrarsi in innovativi campi di ricerche con l’utilizzo di particolari software e l’invenzione di nuovi materiali siano sufficenti a fare un buon progetto, perdendo di vista quelle che sono i riquisiti indispensabili di un progetto quali la fruibiltà, l’accessibiltà e altro.
Se in epoca industriale l’edificio doveva solo funzionare era quindi una macchina, oggi, invece, deve dare qualcosa di più, deve essere un simbolo, raccontare delle storie, mi sento, però, di dire che bisogna stare attenti a non fare progetti che diano solo quel “più” e che non abbiamo quello che è e sarà sempre il requisito minimo ossia che funzionino!

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Da “Dieci anni di rivoluzione fascista” – Maturazione ecrisi dei linguaggi.

 Giuseppe Terragni si pone spiritualmente alla guida del movimento rinnovatore in Italia. È lui l’architetto più dotato. Attratto dalla semplificazione volumetrica di Novecento – il movimento artistico sponsorizzato da Margherita Sarfatti, che gli commissionerà un monumento alla memoria del figlio Roberto – Terragni sonderà ogni linguaggio disponibile. Nel Novocomum è il gioco delle masse plastiche, sottolineato dall’erosione dell’angolo in cui è innestato il cilindro vetrato della scala. Ricorda – ma non vi sono, a quanto risulta, contatti tra i due architetti – un contemporaneo edificio del russo Ilja Golosov, il club Zuev a Mosca.
In altre opere Terragni denuncia influenze metafisiche, costruttiviste e anche futuriste, senza mai dimenticare la lezione lecorbusieriana. Produce lavori anche molto diversi tra loro, quali la Casa del Fascio di Como (1932-36), un prisma unitario con quattro prospetti differenti che oscilla tra la pesantezza di una scultura metafisica e la leggerezza di un edificio razionalista, e l’allestimento della sala O alla Mostra della Rivoluzione Fascista, sempre del 1932, che richiama alla mente immagini costruttiviste e futuriste.

Casa del fascio- Como- progetto G.Terragni

Nel 1930 l’architettura contemporanea è un fenomeno che non può essere ignorato neanche dagli accademici.
Se ne occupa sulla rivista “Dedalo”, diretta dall’ultrareazionario Ugo Ojetti, Marcello Piacentini con un articolo dal titolo Dov’è irragionevole l’architettura razionale, cui replicano due interventi, nell’aprile e giugno del 1941, di Pagano sulle pagine di “La Casa Bella”. Sempre nel 1930, Piacentini pubblica un libro dal titolo Architettura d’oggi, che  mostra quanto poco e di seconda mano un personaggio così influente sappia dei complessi e importanti eventi che stanno scuotendo l’architettura in Europa.

Nel 1930 Figini e Pollini propongono all’Esposizione di Monza un prototipo di casa elettrica. È caratterizzata al piano terra da una grande vetrata e, al piano superiore, da una lunga e leggera pensilina che, chiusa su un lato e aperta sull’altro, va in controtendenza rispetto ai pesi visivi del piano inferiore, forse con una vaga allusione allo zig zag di una scarica elettrica.

All’interno un nuovo sistema di arredi, progettato con Libera e Frette, tiene conto delle innovazioni tecnologiche e del nuovo modo di vita, soprattutto in termini di utensili elettrici, imposto dalla società contemporanea.

Sempre nel 1930 è fondato il Miar, Movimento italiano per l’architettura razionale. Segretario nazionale: Adalberto Libera. Ottiene subito l’appoggio di Pietro Maria Bardi e di Giuseppe Pagano, due personaggi abbastanza influenti nel regime. Il primo perché amico di Mussolini, il secondo perché di provata fede e decorato di guerra.

Nel 1931, nella galleria romana di Pietro Maria Bardi, s’inaugura la seconda Esposizione di architettura razionale italiana. È l’occasione per far conoscere il Miar. In concomitanza con la mostra esce il libro di Bardi Rapporto sull’architettura (per Mussolini). Alla mostra viene esposto il Tavolo degli orrori.

È un’idea di Bardi, che la impone a Libera e ad altri architetti recalcitranti: un pannello che sbeffeggia le realizzazioni degli accademici ritraendole insieme ad altre cianfrusaglie e a immagini di cattivo gusto ritagliate dai giornali.

Bardi prepara anche uno scritto, Petizione a Mussolini per l’Architettura, che consegna al Duce, il quale viene a visitare la mostra. La reazione a tante provocazioni è positiva. Mussolini osserva attentamente e poi, con sollievo dei presenti, approva e autorizza.

La reazione del Sindacato Architetti, di cui è segretario generale Calza Bini, si fa attendere qualche settimana, ma è durissima. Libera, di fatto, sarà costretto a sciogliere il Miar. Mussolini, da parte sua, non vuole interferire più di tanto nelle vicende artistiche e, quando interviene, lo fa con scelte contraddittorie che ora favoriscono uno schieramento ora l’altro. Piacentini intuisce che da questa ambiguità deve trarre la propria forza, proponendosi come arbitro della situazione: si alleerà con i giovani contro i tradizionalisti e con i tradizionalisti contro i giovani. Fedele a questa politica ondivaga, non esita a coinvolgere nella Città Universitaria di Roma (1932-1935) personaggi quali Giuseppe Pagano con l’Istituto di Fisica, Gio Ponti con la Scuola di Matematica, Giovanni Michelucci con l’Istituto di Mineralogia, Giovanni Capponi con l’Istituto di Botanica e Chimica.

Nel 1932 si inaugura la Mostra della Rivoluzione Fascista con una coraggiosa facciata di Adalberto Libera e Mario De Renzi e con il radicale allestimento della sala O di Giuseppe Terragni. È un importante riconoscimento per i giovani. La mostra, tuttavia, frammentata in tanti piccoli ambienti ognuno diverso dall’altro, è la testimonianza della non volontà del regime di prendere posizione e del momentaneo equilibrio tra le opposte fazioni.
Nello stesso periodo, a Roma sono progettati tre edifici postali schiettamente moderni: uno di Mario Ridolfi in piazza Bologna (1932-35), un altro di Giuseppe Samonà in via Taranto (1933-35) e infine quello di Libera e De Renzi in viale Aventino (1933-34).

Esprimono tre diversi modi, tutti credibili, di mediare tra le esigenze monumentali del regime e l’immagine di una società moderna. Più sensuale l’edificio di Ridolfi, più austero quello di Samonà, più metafisico quello di Libera. Quest’ultimo – forse il capolavoro dell’architetto trentino – è composto da un prisma in marmo che racchiude un atrio su cui svetta elegante e leggero un lucernario in vetrocemento, preceduto da un solido porticato in marmo scuro che ricorda i volumi dei quadri di Carrà e De Chirico.

Nel 1933, il gruppo di Michelucci, con grande scandalo degli ultratradizionalisti, ma con l’appoggio di Piacentini, vince il concorso per la nuova stazione di Firenze, di fronte all’abside di Santa Maria Novella, con un progetto che si caratterizza per una lunga massa muraria interrotta da una cascata di vetri.

Stazione di Firenze Santa Maria Novella

Vi è poi il progetto della città di Sabaudia, eseguito a partire dal 1934 dal Gruppo Urbanisti Romani, dove vengono messi in atto principi e regole dell’urbanistica moderna. I due progetti suscitano tanto scalpore da provocare discussioni e proteste, anche in sede parlamentare.

 

Sabaudia

Mussolini interviene convocando a Palazzo Venezia, il 10 giugno 1934, i due gruppi di progettazione, rappresentati rispettivamente dagli architetti Michelucci, Gamberini, Baroni, Lusanna e Cancellotti, Montuori, Piccinato. Difende le scelte dei progettisti:  “Ho chiamato proprio voi che siete gli architetti di Sabaudia e quelli della Stazione di Firenze per dirvi che non abbiate timore di essere lapidati o di vedervi la stazione demolita a furor di popolo, niente affatto.
La stazione di Firenze è bellissima e al popolo italiano piacerà… In quanto a Sabaudia se alcuni ci hanno detto di averne abbastanza, vi dico che io non ne ho abbastanza. Sabaudia mi va benissimo ed è bella”.

Continua sostenendo il moderno: “Non si può rifar l’antico né lo si può copiare”. Ma, contraddicendosi, cita come un buon esempio di tale linguaggio anche la pessima chiesa di Cristo Re il cui progettista è l’onnipresente Piacentini, che – come testimoniano il monumentale rettorato della stessa Città Universitaria di Roma, la Torre della Rivoluzione a Brescia, entrambi terminati nel 1932, e il Palazzo di Giustizia di Milano che Piacentini inizia in quello stesso anno – sta conducendo l’architettura italiana verso tutt’altre direzioni rispetto a quelle auspicate dai razionalisti. Lo stesso Mussolini, più tardi, rinnegherà di fatto, con scelte a dir poco discutibili, il discorso di Palazzo Venezia.

le architetture del 1930 a Padova

http://www.skyscrapercity.com/showthread.php?t=873360&page=3

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PROGETTI DI G.TERRAGNI- pdf

http://www.terragni.eu/file/pubblicazioni/1991%20Zodia/1991%20Zodiac.pdf

https://www.politesi.polimi.it/bitstream/10589/28861/15/musebrecri%20last.pdf

L’architettura invisibile di Giuseppe Terragni- Rita El Asmar,
31 Ottobre 2012 in ARchiTEttura

Il Razionalismo in Architettura è un prodotto della civiltà attuale come il Rinascimento fu un prodotto della cultura Umanistica.” Giuseppe Terragni

Fino al 9 dicembre il CIAC – Centro Italiano di Arte Contemporanea di Foligno propone la mostra Giuseppe Terragni – Il primo architetto del tempo, curata da Attilio Terragni (Centro Terragni) e Italo Tomassoni (CIAC). Attraverso disegni, schizzi autografi, modelli e materiali d’epoca, l’opera del grande architetto è presentata a partire dal contesto storico e culturale in cui si inserisce e collegata al gruppo di architetti, artisti e filosofi che hanno contribuito a delineare la visione contemporanea del mondo.

Giuseppe Terragni, Casa del Fascio, vano scala
Casa del fascio, 1928 1932-1936

L’attività professionale di Giuseppe Terragni (1904 – 1943) aveva preso avvio dopo la laurea in architettura conseguita al Politecnico di Milano dopo un’esperienza universitaria deludente, contraddistinta dall’insofferenza dello studente per l’ambiente accademico: il Politecnico era infatti all’epoca una scuola stanca, i cui insegnamenti si improntavano ancora su modelli di stampo ottocentesco e su memorie neoclassicheggianti. Fuori dall’università il quadro non era molto più stimolante: indifferente a quei fermenti che avrebbero portato alla diffusione del razionalismo in tutta Europa, il dibattito architettonico italiano degli anni Venti non era riuscito a calarsi nella attualità, privando di una mediazione intellettuale le radicali trasformazioni sociali ed economiche in atto nel Paese, avviato dal regime fascista alla riconversione postbellica e allo sviluppo industriale.

Giovanni Muzio Cà Brutta, 1919-22
Via Moscova, Milano
Via moscova, milano
I giovani architetti che guardavano all’estero, tra cui lo stesso Terragni, risposero con entusiasmo e partecipazione agli slogan provocatori proclamati nel 1925 da Le Corbusier nel suo Vers une Architecture, in cui si enunciavano i principi fondativi di una nuova architettura, moderna e funzionale. Si riunirono in gruppi di azione, parteciparono a mostre ed esposizioni, pubblicarono interventi nelle riviste di settore, avviando un’opera di sensibilizzazione all’architettura funzionale e contribuendo attivamente alla ricerca razionalista con opere che di fatto riportarono l’Italia all’attenzione internazionale e al passo con i tempi. La nuova architettura aspirava ad un rinnovamento formale che mantenesse tuttavia un rapporto con la tradizione. Raggiunse esiti così alti da suscitare il vivo interesse del regime, che non esitò a ricorrervi quando voleva fregiarsi di modernità ed efficienza anche se, dopo la svolta in senso autoritario del ‘25, aveva progressivamente affidato la propaganda ufficiale alle solennità monumentali della cultura accademica.

Giuseppe Terragni, Asilo Infantile Sant’Elia, 1934/1936-1937
Via Alciato, Como
Via alciato, como
La ricerca di Terragni muove dall’urgenza di aggiornare l’architettura, che doveva dotarsi di un programma funzionale flessibile rispetto alle vecchie regole e avvalersi dell’innovazione tecnologica e costruttiva, e raggiunge risultati sublimi per il rigore e la coerenza con cui applica l’assunto razionalista di ordine e chiarezza.

Proiezioni sulla Casa del Fascio in occasione del Centenario della nascita di Giuseppe Terragni, nel 2004
Proiezioni sulla Casa del Fascio in occasione del Centenario della nascita di Giuseppe Terragni, nel 2004
Mentre si accingeva a progettare la Casa del Fascio di Como – emblema della sua poetica e capolavoro dell’architettura razionalista italiana – Terragni aveva appena ventotto anni. Nel progetto dell’edificio, un cubo rivestito di pietra bianca e dall’aspetto severo, l’architetto rivisita la tipologia tradizionale del palazzo, che finisce per assumere i caratteri della struttura urbana nella sua composizione di opposti (pieno/vuoto, opaco/trasparente, alto/basso, dentro/ fuori), riproposti nel ritmo armonico dei suoi prospetti.
In un estremo sforzo di sintesi, gli elementi complessi dell’architettura sono ricondotti a poche forme desunte dalla sintassi neoplastica (moduli geometrici, piani, linea retta); la perfetta assonanza tra regola geometrica e necessità strutturale approda all’astrazione pura: come ribadisce Tomassoni, “la concezione di una architettura che comprenda, nelle sue definizioni, l’impiego del vuoto e dell’aria, porta al superamento della fisicità percettiva dei materiali inerti, all’alleggerimento delle compressioni dei piani e dei volumi spaziali   risolvendo nella luce, nella leggibilità del progetto e nella razionalità delle soluzioni geometriche le tensioni e le spinte delle forze costruttive e dei condizionamenti esterni”.
Scomparso prematuramente a soli 39 anni, lascia una serie di progetti estremamente significativi, accomunati da una poetica di “aspirazione alla tonalità sospesa”, “di un’architettura come sogno della ragione” (M. Tafuri). La preziosa eredità sarà raccolta dalla pittura astratta comasca guidata da Mario Radice, che svilupperà ricerche affini, sublimando la sua architettura nell’Arte.

Capolavoro razionalista italiano, la Casa del Fascio realizzata da Giuseppe Terragni, fra il 1932 e il 1936, è un semicubo armonico e proporzionato, che si presenta nelle sue quattro diverse facciate, cui si aggiunge la quinta facciata costituita dalla terrazza, come un unicum, con un sapiente sistema di pieni e di vuoti e il tipico motivo della griglia.
Oggi è sede del comando della Guardia di Finanza.

Inserito in un lotto rettangolare, l’edificio ne occupa solo una parte, lasciando libera la porzione antistante, piazza del Popolo, di fatto platea sulla quale emerge.
Caposaldo dell’architettura moderna, rappresenta la sintesi di matrici culturali apparentemente inconciliabili: la tradizionale tipologia del palazzo urbano accanto all’esplicita ostentazione del sistema costruttivo a griglia in cemento armato.
Il progetto definitivo si concretizza attorno ad un organismo compatto su quattro piani, dalla pianta quadrata, con una grande salone centrale a doppia altezza, illuminato dall’alto mediante una copertura piana in mattonelle di vetrocemento. A perimetro, si trovano tutti gli ambienti di studio e riunione, prospicienti le facciate sull’isolato.
Il volume prismatico della Casa del Fascio è rivestito di marmo bianco; le quattro facciate, prive di apporti decorativi, sono trattate autonomamente l’una dall’altra, con differenti aperture e partiture che lasciano ampio spazio alla esibizione della griglia strutturale di pilastri e travi.
La piazza antistante è lo spazio esterno che compenetra l’edificio, diventa il naturale prolungamento della corte centrale per il tramite della scalinata di accesso all’atrio, almeno idealmente senza soluzione di continuità. Le ampie superfici vetrate, in questo senso, favoriscono la continua percezione dello spazio, senza limitazione tra interno ed esterno.
Nel sistema planimetrico si inseriscono, a destra dell’entrata, lo scalone principale, fulcro del sistema di distribuzione a ballatoio che si svolge attorno alla corte centrale, ed il sacrario a sinistra.
Il primo piano, della Casa del Fascio quasi un piano nobile, si distingue per la galleria di disimpegno che connette gli uffici della segreteria politica, la sala del direttorio, l’ufficio del segretario politico. Al secondo livello, altri uffici, l’amministrazione, la biblioteca. Al piano dell’attico, raggiungibile con una scala secondaria, sono distribuiti, attraverso loggiati, il blocco destinato ai gruppi universitari, l’archivio e l’alloggio del custode.
I prospetti rispettano, nella gerarchia tra fronte principale e affacci laterali, il rapporto con l’intorno. Sulla piazza la facciata è caratterizzata da un grande loggiato, svuotamento sottolineato dalla linee ascendenti di pilastri e trasversali della travatura.
La Casa del Fascio, iniziata nel mese di luglio 1933, fu definita in corso d’opera con alcune sostanziali modifiche delle superfici esterne; in particolare, il rivestimento in lastre di marmo e le ampie superfici risolte in vetrocemento lungo il perimetro e verso la corte centrale.
Con la revisione dei prospetti, furono modificati anche i serramenti, originariamente previsti tutti in ferro, poi integrati da infissi in legno.

LA CASA DEL FASCIO A COMO, OVVERO LA TRASPARENZA AL POTERE

Progettare architettura è mestiere difficile: il termine stesso suggerisce, se stabiliamo un’equivalenza tra spazio e tempo, che pro-gettare consiste nel lanciare al di là di un muro e in un territorio non conosciuto, la nostra idea e in particolare le nostre forme ideali dello spazio che sono destinate a prendere consistenza concreta sul terreno.

L’architettura, per sua natura, è legata sia all’utopia sia alla storia. Queste due componenti della cultura umana ne costituiscono il contesto, inteso in senso lato. Forse non bisognerebbe mai perder di vista l´orgoglio della modestia secondo un’espressione usata da Giuseppe Pagano, nel 1940, su Casabella. In altre parole l´architettura deve soprattutto rispondere ai bisogni: una costruzione moderna non può essere giudicata positivamente, se non contribuisce ad aumentare il benessere umano. Razionalisti, vennero chiamati quegli architetti che negli anni venti e negli anni trenta del XX secolo seppero conciliare lo sfruttamento razionale dello spazio e delle risorse disponibili per migliorare quella che oggi chiamiamo la qualità della vita degli uomini. Il termine Razionalismo chiama in causa la ragione e la ragione si esercita in diversi modi: come facoltà di distinguere il vero dal falso, come metodo dimostrativo, o anche, genericamente, come modo di ordinare la realtà riconducendone a unità sistematica le varie manifestazioni mediante principi di giudizio e regole di applicazione. Nel lavoro creativo dell’immaginazione, in questo caso quella dell’architetto, si aprono percorsi che si fondano sulla ragione, che modellano lo spazio sulla base di precise esigenze funzionali: il raggiungimento di un risultato estetico deriva dal perfetto adempimento di una funzione razionale. Le parole di Giuseppe Terragni, all’indomani dell’affidamento dell’incarico di progetto della Casa del Fascio, sono in tal senso illuminanti.
Scriveva nel 1932: “Il tema è nuovo; assolutamente impossibile qualunque riferimento a edifici di carattere rappresentativo, occorre creare su basi nuove e non dimenticare che il Fascismo è un avvenimento assolutamente originale.
Prima scoperta è che l’area prestabilita, donata dal Comune, è notevolmente insufficiente (700 mq. circa); dopo non facili trattative si ottiene un aumento della superficie: ne risulta un’area quadrata con i lati di 33 m. e 25 cm. e 33 m. e 15 cm. (totale 1101 mq.). Impossibile quindi immaginare una dimensione prevalentemente orizzontale dei numerosi reparti richiesti dal Segretario Federale che costituiscono la Federazione dei Fasci di combattimento (centro politico di organizzazione delle attività spirituali e delle manifestazioni assistenziali di una provincia).
Tale disposizione, che avrebbe facilitato il problema dei collegamenti tra gruppi di uffici, dislocazione dei servizi, circolazione del pubblico e degli addetti di Federazione, avrebbe richiesto un’ area tre volte superiore… Il costo dell’area occorrente per una Casa del Fascio a disposizione tipicamente orizzontale avrebbe gravato in modo eccessivo sul costo complessivo.
Esigenze di pianta mi hanno deciso ad occupare l’intera area assegnata. Ciò suscita di conseguenza un accrescersi di problemi di illuminazione naturale, ventilazione e disimpegno degli ambienti e di quelli non meno importanti di scarico delle acque piovane.
Si profila così il concetto informatore e le particolari necessità di questa casa del Fascio: un ampio spazio coperto al centro sul quale aggettano i disimpegni, gli uffici e le sale di riunione. Ma occorre studiare la possibilità di accedere in formazione affiancata di fascisti e popolo: occorre annullare ogni soluzione di continuità tra interno ed esterno rendendo possibile che un gerarca parli agli ascoltatori riuniti nell’interno e sia contemporaneamente ascoltato dalla massa riunita sulla piazza.
Ecco il concetto mussoliniano che il Fascismo è una casa di vetro in cui tutti possono guardare: nessun ingombro, nessuna barriera tra gerarchie politiche e popolo. Questo andare verso il popolo fisicamente presuppone che il popolo possa liberamente accostarsi alla Casa che accoglie i dirigenti, i comandanti di questa avanzata sociale.
Quello di poter vedere ciò che accade dentro è il miglior distintivo di una Casa costruita per il popolo, in confronto di una reggia, di una caserma, di una banca” (dalla rivista Quadrante, 1936).
Leggendo queste parole, ci accorgiamo di quanto precisi vincoli di natura ambientale abbiano condizionato Giuseppe Terragni, prima di ogni altra valutazione di natura estetica, nella progettazione e di quanto essi siano stati determinanti nella scelta della forma architettonica del nuovo edificio. In altre parole: pur partendo da questi vincoli, e, forse grazie a questi vincoli, egli aveva chiaro che ad esigenze nuove ed a temi nuovi ( e nuovo era per Terragni il Fascismo), doveva corrispondere una nuova progettualità.
La Casa del Fascio, il famoso blocco pesantemente poggiato al suolo dalla forma stereometrica, cioè pura, compatta, percepibile e misurabile, “pieno”, ma poderosamente bucato, dimensionalmente simmetrico, ma figurativamente variabile senza tregua, nell’equilibrio della propria impaginazione e nella diversità delle impaginazioni, così serrato e così ininterrottamente fresco di invenzioni connotative, giocato in facciata, ma rinviante al volume.Volumetrico ma stratificante, un lato dopo l’altro, con seconde, terze stesure di superfici in realtà risponde in primo luogo a precise esigenze funzionali, in primis quelle di aria e luce da dare agli ambienti, in secondo luogo ad esigenze di natura simbolica di ambito politico-sociale. Eppure, ancora nel 1971 uno dei maggiori baluardi del pensiero unico dell’ortodossia funzionalista, in uno dei testi obbligatori per gli studenti d’architettura italiani, semplificava il contributo di Terragni al formalismo di un “serrato e magistrale gioco di volumi” ovviamente privo del “sostegno di un preciso rapporto funzionale”, considerando la ricerca della forma in Terragni non solo un esercizio declassante, di livello inferiore, rispetto alle “alte” finalità dell’architettura, ma un vero e proprio incidente determinato dalle ristrettezze culturali dell’Italia del tempo (L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna).
Certo Terragni nel 1932, non poteva non pensare che “una casa del Popolo non è, e non può essere, una costruzione di tipo popolare nel significato che comunemente si dà a tal genere di edilizia”. Ma “Se ai fini utilitari e funzionali di una casa da uffici serve tanto una parete intonacata quanto una parete di marmo, al carattere di un edificio rappresentativo può servire solo quella di marmo. Talvolta un parapetto di scala può assumere l’importanza di un fatto decorativo o architettonico senza perdere in questo arricchimento la sua funzionalità o la sua sincerità”. (ibidem). Terragni risolse quello che possiamo definire l’aspetto di comunicazione simbolica dell’edificio “da architetto”, attraverso una scelta formale e strutturale, e direi anche materica (vedi l’uso del cemento e del vetro); non si affidò ad aggiunte esornative, semmai operò per sottrazione di orpelli. La struttura stessa della Casa del Fascio di Como (così come quelle di Lissone, di Roma – Trastevere, di Rebbio ), nel momento in cui soddisfa razionalmente precise esigenze di natura funzionale, diventa forma simbolica. Il particolare messaggio ideale dell’edificio pubblico viene connesso ad un concreto, nuovo lessico strutturale leggibile ed intimamente identificabile con esso. Al di là della riflessione sull’opera di Terragni, che spesso è rimasta sospesa pregiudizialmente ad una domanda apparentemente essenziale riguardo alla sua adesione al Fascismo, quello che conta e che è invece veramente importante è l’esemplarità della sua architettura che vive ed esercita stimoli e parla alla contemporaneità con un linguaggio ancora vivo ed attuale.
Riprendendo l’immagine iniziale, possiamo dire che l’idea è stata lanciata di là dal muro: la Casa del Fascio di Como ha superato ormai la contingenza biografica del suo architetto e dell’epoca storica in cui visse e, dal punto di vista critico, trasmette una lezione che sopravanza la stessa esemplarità della vicenda umana dell’autore.

  Daniela Giunco

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Quaderni di progettazione: Appunti architettura – prof.ssa F.Ferraresso

danish-maritime-museum-u120413.

Fra i giovani studenti di architettura c’è un libro che viene prestato e riletto, discusso e copiato: Yes is More, un fumetto che racconta i progetti dello studio Bjarke Ingels Group (BIG).
I progetti di questo studio sono sempre originali e utopistici, molto spesso grotteschi, stupidi e sforzatamente nuovi; ma nessun altro può incarnare come loro lo spirito capitalistico, spettacolare e magnificente dell’architettura contemporanea. C’è sempre un’idea di base molto forte; in qualche caso, si tratta di un colpo di genio.Infatti, come racconta l'”archifumetto”, il progetto del Continua a leggere

Corso Scenografia – Quando la scena è un libro e…- idee da appuntarsi

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e la proiezione costruisce l’effetto della terza dimensione…restando sempre in un piano….fantastico!