casa del fascio- arch. pietro zanini
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Gli eventi di massa del fascismo avvengono infatti soprattutto nelle grandi città, in primo luogo a Roma, ridotta a puro feticcio della ‘romanità’.
Ciò che spaventa è il fatto che nel contesto urbano le organizzazioni operaie sono più forti e sboccano più facilmente in azioni sovversive; Torino si distingue tra tutte: nel 1920 aveva visto dilagare gli scioperi operai, fino all’atto estremo di occupazione delle fabbriche.
Le città sono anche il luogo dove i ‘vizi’ della modernità hanno le loro conseguenze più deleterie, in particolare sulla natalità.
Tutto questo non impedisce tuttavia che ci si occupi anche dei problemi urbani, soprattutto con programmi di sventramento in base a presupposti di natura igienico-sanitari; ma anche con la creazione di quartieri nuovi (come il Foro Italico, l’Eur e la città universitaria a Roma) o di riqualificazione architettonico-urbanistica come a Torino (rifacimento di via Roma), Bolzano (Arco della Vittoria), piazze della Vittoria (Genova e Brescia) e Firenze (stazione ferroviaria).
Per contrastare la disgregazione sociale e le tentazioni sovversive di una società avviata verso l’industrializzazione il fascismo punta pertanto alla creazione di nuove comunità piccole e medie in area agricola, destinate a diventare sedi privilegiate della nascente ‘civiltà rurale’, terzo elemento di una filosofia dello Stato che sta prendendo corpo. Lì i coloni non abitano intorno al centro cittadino per andare di giorno a lavorare i campi e tornare la sera, com’è nei borghi del meridione, ma vivono isolati sul loro podere e si spostano in centro solo quando necessario. In questo modo si vogliono ridurre anche i rischi di destabilizzazione rappresentati dai collettivi bracciantili, soprattutto in Veneto e in Emilia Romagna.
A seguito di questo programma, nel ventennio ben 2 milioni e 400 mila ettari di terreno vengono trasferiti dalla grande e media proprietà terriera ai coloni, piccoli proprietari ‘sproletarizzati’. Operazione analoga, ma senza trasferimento di proprietà, è costituita dal piano detto ‘Cini, Balbo, Klinger’ nel ferrarese, che prevede di ricavare dalle grandi aziende 16.000 poderi di 10 ettari ciascuno da assegnare ai braccianti in regime di mezzadria. In tal modo si spera di legarli alla terra e di farli scomparire come categoria (a metà degli anni ’30 i braccianti erano 170.000 unità, mentre affittuari e mezzadri con le loro famiglie raggiungevano appena le 70.000).
esistenze, scioperi e atti di sabotaggio contro l’ONC non si contano. D’altra parte è risaputo che solo il 58% dei lavori di bonifica viene portato a termine e che poco più di un terzo dei progetti di irrigazione viene completato anche perché manca un’efficace programmazione nazionale. In particolare, poiché era più facile programmare i tempi delle costruzioni edilizie che non quelli della bonifica dei terreni, i coloni spesso ricevevano una casa fresca di muratura ma un appezzamento ben lontano dall’essere un podere produttivo. Anche la ‘battaglia demografica’ lanciata da Mussolini con premi assegnati alle famiglie prolifiche, non raggiunge il suo obiettivo: la natalità tra i coloni scende addirittura sotto la media nazionale. Dal canto loro i dati della produzione agricola sono troppo incerti perché si possa fare un reale bilancio degli effetti della bonifica integrale. Per quanto riguarda infine l’occupazione, dopo una prima flessione tra 1923 e 1926, la disoccupazione aumenta per raggiungere il picco di 1.300.000 unità nel 1933 e attestarsi sul milione negli anni immediatamente successivi; anche l’incremento di occupazione dovuta all’attività di bonifica rimane scarsamente rilevante.
Il programma evidentemente non raggiunge i frutti sperati se, ancora nel 1934 (18 marzo), Mussolini impartisce una direttiva che fissa gli obiettivi dell’appoderamento: ”La parola d’ordine è questa: entro alcuni decenni tutti i rurali d’Italia devono avere una casa vasta e sana […] Solo così si combatte il nefasto urbanesimo; solo così si possono ricondurre ai villaggi ed ai campi gli illusi e i delusi che hanno assottigliato le vecchie famiglie per inseguire i miraggi cittadini del salario in contanti e del facile divertimento”.
2. Urbanesimo e ruralità: due modelli in conflitto
Per quanto riguarda la ruralizzazione il regime, e Mussolini in prima persona, vivono una situazione contraddittoria, non solo e non tanto per la centralità assegnata all’industria nella politica economica nazionale, ma anche per il ruolo che le città continuano necessariamente a ricoprire, oltre che ai fini produttivi, nella politica del consenso. Gli eventi di massa del fascismo avvengono infatti soprattutto nelle grandi città, in primo luogo a Roma, ridotta a puro feticcio della ‘romanità’.
Ciò che spaventa è il fatto che nel contesto urbano le organizzazioni operaie sono più forti e sboccano più facilmente in azioni sovversive; Torino si distingue tra tutte: nel 1920 aveva visto dilagare gli scioperi operai, fino all’atto estremo di occupazione delle fabbriche.
Le città sono anche il luogo dove i ‘vizi’ della modernità hanno le loro conseguenze più deleterie, in particolare sulla natalità.
Tutto questo non impedisce tuttavia che ci si occupi anche dei problemi urbani, soprattutto con programmi di sventramento in base a presupposti di natura igienico-sanitari; ma anche con la creazione di quartieri nuovi (come il Foro Italico, l’Eur e la città universitaria a Roma) o di riqualificazione architettonico-urbanistica come a Torino (rifacimento di via Roma), Bolzano (Arco della Vittoria), piazze della Vittoria (Genova e Brescia) e Firenze (stazione ferroviaria).
Per contrastare la disgregazione sociale e le tentazioni sovversive di una società avviata verso l’industrializzazione il fascismo punta pertanto alla creazione di nuove comunità piccole e medie in area agricola, destinate a diventare sedi privilegiate della nascente ‘civiltà rurale’, terzo elemento di una filosofia dello Stato che sta prendendo corpo. Lì i coloni non abitano intorno al centro cittadino per andare di giorno a lavorare i campi e tornare la sera, com’è nei borghi del meridione, ma vivono isolati sul loro podere e si spostano in centro solo quando necessario. In questo modo si vogliono ridurre anche i rischi di destabilizzazione rappresentati dai collettivi bracciantili, soprattutto in Veneto e in Emilia Romagna.
3. Caratteristiche dei borghi di fondazione
I nuovi centri sono costituiti fondamentalmente delle sedi dei servizi e delle istituzioni, tra le quali primeggiano la casa del fascio e la torre littoria, sostituto fascista di quella civica, e la chiesa.
Come osserva Mariani queste nuove entità urbane rivelano la “volontà di costruire città che non siano città, riformare la società italiana esaltando la campagna con sistemi e modi ‘urbani’, proporre una ‘nuova società’ su basi pseudotradizionaliste”. Questo deriva con ogni probabilità dalla compresenza, all’interno del fascismo, di posizioni differenti se non contrapposte. Si coglie probabilmente la vera natura dei nuovi borghi attraverso la definizione che ne dà Luigi Piccinato, nel 1934: ”Esse non sono città ma centri comunali agricoli; […] il fine di esse non è quello di vivere alle spalle della bonifica dei terreni, ma all’opposto esse sono sorte al servizio della bonifica”.
Informazioni di massima su tecniche e materiali si possono invece dedurre dalla relazione del piano regolatore di Pontinia dal quale viene in luce anche una sostanziale approssimazione nell’affrontare l’organizzazione degli spazi: “I progetti tutti sono stati studiati con la collaborazione artistica dell’architetto Oriolo Frezzotti. L’architettura dei singoli fabbricati è ispirata dalla ruralità dell’ambiente, facendo predominare il motivo che gioca sul contrasto del paramento a cortina di mattoni con varie tinte su intonaco e limitatissimi rivestimenti in travertino o finto travertino. Nelle piante si è cercato di distribuire i diversi vani in modo da ottenere il massimo rendimento in rapporto allo scopo al quale i fabbricati stessi devono servire”.
Come si vede l’orientamento formale proposto, soprattutto per gli edifici di abitazione è la ‘rusticità’, coniugata con l’impronta tradizionale italiana. Scrivono in proposito Nuti e Martinelli: “Colori e materiali delle città nuove rientrano anch’essi nella tradizione nazionale, verso cui respingeva inesorabilmente lo spettro dell’autarchia e la messa al bando del cemento armato, del ferro e del vetro. La muratura ordinaria coperta di intonaci chiari costituisce la facies della città mentre è limitato e dosato l’impiego del mattone a faccia vista, del marmo chiaro e poroso (travertino, peperino) a grandi lastre per rivestimenti e zoccolature […]”. E ancora: “La dimensione strapaesana rimane il dato più evidente e comune a tutte le città nuove, dove la ruralità viene realizzata per trasposizione, ruralizzando cioè un’immagine cittadina profondamente radicata nella storia italiana, quella della gloriosa città stato comunale, rozzamente rivisitata dall’ideologia fascista”.
L’espressione Casa del Popolo compare per la prima volta in Italia tra l’8 e il 10 settembre 1893 durante il secondo congresso socialista a Reggio Emilia, in occasione del quale fu inaugurata la nuova sede della cooperativa di Massenzatico, un paese nei pressi di Reggio Emilia.
Le Case del Popolo hanno radici anche nelle esperienze europee della Maison du peuple francese, belga e svizzera (la prima Casa del Popolo svizzera sorse nel 1899 a San Gallo), della Volkshaus tedesca e della Volkshuis olandese.
Ne sono esempi la Maison du Peuple di Bruxelles, chiamata anche, in fiammingo, Volkshuis van Brussel, la Maison du Peuple di Nancy, la Maison du Peuple de Clichy.
La Casa del Popolo risponde ad esigenze di sviluppo e funzionamento di cooperative di lavoro e consumo e di un complesso di servizi culturali, assistenziali, mutualistici e ricreativi.
Culturalmente rappresenta la visibilità del movimento, la sua stabilità, l’unità e la solidarietà popolari, la dimostrazione pubblica della propria capacità etica e tecnica, il senso di un profondo radicamento sul territorio, la conservazione della memoria.
Infine, essa simboleggia il centro coordinatore dell’insieme associativo socialista, il modello della futura società, il nucleo di un socialismo che si sarebbe gradatamente allargato fino a comprendere il comune, la vita economica e l’intera società civile. In questo senso, la Casa del Popolo contiene la speranza della società futura e dell’uomo nuovo socialista. In Friuli la prima casa del popolo fu fondata nel 1909-1911 a Torre, sobborgo operaio di Pordenone ove nel 1840 era stato costruito il primo dei grandi cotonifici della zona; fu inaugurata il 1º maggio 1911 (cfr. http://www.casadelpopolo.org). Seguì nel 1913 quella di Prato Carnico (Comune di montagna che all’epoca aveva 2500 abitanti) ed era stata finanziata e costruita dagli emigrati (Circa la metà della popolazione) che mandarono i soldi per i materiali dalla Francia,Germania,Usa,ecc. e dai lavoratori della valle Pesarina. Prima della guerra era stata ribattezzata dal regime in Casa del Littorio. Dopo il restauro del 1947 riprese il suo nome originale che conserva ancora oggi sebbene dal 2010 sia stata trasformata dal comune in albergo-ristorante. In Abruzzo la prima Casa del Popolo fu fondata da Umberto Postiglione, a Raiano, nei primi anni venti.
Storia
Dopo l’avvento al potere del fascismo vennero costruiti, come sedi del PNF, edifici ad hoc, una stima calcola che ne venissero realizzati circa 5.000[1], moltissimi creati ex novo da architetti del movimento razionalista tra i quali Adalberto Libera, Saverio Muratori, Ludovico Quaroni, Giuseppe Samonà e Giuseppe Terragni. Non mancarono edifici realizzati da architetti della tendenza storicista e altri da architetti “novecentisti”.
Le case del Fascio istituite furono in tutto circa 11.000. Non tutte furono ospitate in edifici costruiti ad hoc, anzi, la maggioranza, soprattutto nei centri minori, fu istituita semplicemente affittando, acquistando o acquisendo in uso edifici esistenti, non di rado senza neanche condurre significative ristrutturazioni funzionali ed estetiche, pur previste in diversi casi[2]
La casa del Fascio divenne un elemento irrinunciabile nelle successive città di fondazione e in molti dei nuovi borghi rurali, assieme alla chiesa e al municipio, in quelli destinati a essere eletti a comune. Oltre che in Italia, tali edifici vennero costruiti anche nelle colonie, dall’Africa al Dodecaneso.
Durante il periodo della Repubblica Sociale Italiana alcune diventarono sedi del Partito Fascista Repubblicano (1943–1945), erede del Partito Nazionale Fascista.
Nel secondo dopoguerra, tali immobili furono devoluti allo Stato per effetto delle disposizioni contenute nell’articolo 38 del DLL 27 luglio 1944, n. 159, recante “Sanzioni contro il fascismo”.
Il Cus Padova e la memoria del Novecento
L’attuale sede di via Giordano Bruno fu inaugurata da Benito Mussolini nel 1938
PADOVA. Basta alzare lo sguardo. Da una parte ci sono le cupole di Santa Giustina, dall’altra lo stadio Appiani. A fare da collante Prato della Valle. Da qui per arrivare agli impianti del Cus, proprietà dell’Università di Padova, ci sono appena duecento metri. A rendere funzionanti le due strutture di via Giordano Bruno e a tenerle aperte per 360 giorni all’anno, è il lavoro di una dozzina di dipendenti, a cui va aggiunta l’attività di un altro centinaio di persone tra tecnici, preparatori atletici e dirigenti tutti volontari. Ventimila metri quadrati dove è possibile trovare la storica palestra polivalente (pallavolo, hockey, pallacanestro, pallamano), una palestra per la scherma, una per lo judo, quattro campi da tennis in terra battuta scoperti e illuminati e un campo da calcio a 5.
Ogni avventura umana, e quella del Centro Sportivo Universitario di Padova (Cus) è legata a luoghi, date, a uomini e donne, all’intrecciarsi delle loro vite, dei loro sogni, delle loro aspirazioni, delle loro intuizioni, dei loro errori. Quella che raccontiamo è una storia lunga, che ha attraversato buona parte del Novecento, portandosi dietro il sacrificio e le illusioni di chi ha visto l’Italia vivere a pieno le grandi speranze offerte dalla scienza, due tragiche guerre mondiali, il momento della rinascita, il boom economico, la sfida del terrorismo, la speranza del terzo millennio. Quella che oggi è la sede del Cus nasce come Gruppo Rionale Fascista Bonservizi, inaugurato da Benito Mussolini sabato 24 settembre 1938. Il nome Bonservizi dice poco ai padovani, se non a quelli più anziani che ne ricordano l’intero complesso. In realtà la denominazione Bonservizi non nasce dalla qualità dei servizi offerti. Bonservizi è stato un uomo, un attivista che, peraltro con Padova c’entrava davvero poco.
Nicola Bonservizi nasce il 2 dicembre 1890 a Urbisaglia in provincia di Macerata. Figlio primogenito di Caterina Brunelli e Adolfo Bonservizi, suo malgrado finisce catapultato agli onori della nostra città grazie all’amicizia con Mussolini. Fervente interventista come tenente di artiglieria, Bonservizi collabora alla rivista Utopia che il futuro Duce fonda dopo l’uscita dall’Avanti e dal partito Socialista. Fascista della prima ora (era in piazza San Sepolcro a Milano quando il 23 marzo 1919 nascono i Fasci italiani di Combattimento), il giovane giornalista marchigiano lavora come redattore fin dalla fondazione al Popolo d’Italia. Nel 1920 decide di trasferirsi a Parigi, dove ricopre l’incarico di corrispondente, sempre per conto del Popolo d’Italia, e dove fonda il settimanale Italie nouvelle. Attivissimo, appassionato, nel 1921 è nominato delegato politico del partito fascista in Francia. Fece una brutta fine: ferito il 20 marzo 1924 dall’anarchico Enrico Bonomini mentre si trovava nel ristorante Savoia, muore sei giorni dopo, il 26 marzo. Dopo le onoranze funebri celebrate a Parigi, la salma è trasportata a Milano dove ad attenderla c’è Benito Mussolini. Per ricordare Nicola Bonservizi nel 1936 si modifica il nome del Comune da Urbisaglia in Urbisaglia-Bonservizi, denominazione mantenuta ufficialmente fino al 1945, nei giorni successivi alla Liberazione quando fu poi smantellato ogni ricordo con il regime. Sembra che fu lo stesso Benito Mussolini a volere che la sede del Gruppo Rionale Fascista di Padova, realizzata da Quirino De Giorgio su un’area di 8.454 metri quadrati, fosse dedicata a Nicola Bonservizi. Il complesso, nato a ridosso delle mure cinquecentesche e confinante con via Giordano Bruno, fu progettato come due corpi di fabbrica orizzontali che lasciassero vedere le mura retrostanti. Un’esauriente descrizione del Gruppo Rionale Fascista Bonservizi è contenuta nel fascicolo I luoghi della memoria realizzato da Roberto Bettella ed Emilio Mainini in collaborazione con Roberto Conte e Paola Pizzo per conto del Comune di Padova.
«Per analogia con i bastioni», si legge nel centinaio di pagine del volumetto, «De Giorgio usò materiale di cotto a faccia a vista lavorato con mattone sporgente e una tavella rientrante che creano continue nervature orizzontali. In un corpo di fabbrica vennero sistemati al primo piano gli uffici, e al piano terreno il Dopolavoro; in un altro venne creata la sala delle riunioni. Le due costruzioni vennero unite da un corridoio a vetri. Accanto a queste due parti De Giorgio costruì la torre su via Giordano Bruno, unita alla sala per mezzo del vestibolo a giorno, ad archi. La torre termina con un giro d’aquile a sbalzo e con aperture a feritoie. Sopra la porta d’entrata la Vittoria fascista a bassorilievo in cotto, mentre teste di leone, pure in cotto, aggettano dalle superfici piene della sala. Le pareti dell’atrio erano rivestite da lastre in pietra tenera con simboli dovuti ad Amleto Sartori. Nel muro di fondo della sala un affresco rappresentava la gioventù del Littorio, l’Italia guerriera e lavoratrice, la Maternità e la Donna italiana. Lo spazio tra la sede e le mura cinquecentesche venne adibito a teatro dei Tremila per le rappresentazioni teatrali estive, mentre nello spazio tra la sede e il bastione venne costruito il teatro dei Diecimila per le manifestazioni liriche all’aperto. L’edificio era utilizzato soprattutto nelle riunioni del Partito Nazionale Fascista, per le varie categorie ed età o per rievocazioni e celebrazioni. Serviva spesso per attività ricreative che prevedevano l’organizzazione di rappresentazioni teatrali, quasi sempre di compagnie amatoriali, di spettacoli per bambini».
Quello che qualche anno dopo diventerà il cuore della Padova universitaria che ama lo sport, già da allora era legato ad attività sportiva, in particolare con la buona stagione, a gare di bocce che si svolgevano nei campi di via d’Aquapendente, nell’allora sede della trattoria Giaba. Dopo l’8 settembre 1943 il Bonservizi scompare dalle pagine dei quotidiani cittadini a testimonianza di una diversa e più riservata destinazione d’uso: il complesso ospita la sede del comando del battaglione Ettore Muti e della diciottesima brigata nera Begon, diventando anche teatro di violenze nei confronti di antifascisti. Sono anni di grandi sofferenze e dolori quelli che legano la storia padovana alla fine della seconda guerra mondiale. Il Gruppo Rionale di via Giordano Bruno perde la sua funzione di centro di aggregazione per trasformarsi sempre più in strumento di becero potere politico. La conclusione del conflitto lo vedrà ancora lì, non più nella vecchia denominazione dedicata al giornalista Nicola Bonservizi, ma pur sempre nell’originaria filosofia di luogo dove potersi ritrovare, stare insieme. Per fare sport, per crescere fisicamente e intellettualmente. A muoversi per primi sono gli studenti dell’Università di Padova che sentono forte l’esigenza di ricominciare. Significativa è la data di lunedì 28 maggio 1945 che decreta la nascita dell’Associazione Universitaria Studentesca (Aus). Alle ore 10 in via 8 febbraio, nel cortile del Bo, si ritrovano in diciotto che votano la nomina del presidente Ennio Ronchitelli, del vice presidente Gelserino Graziato e di Pilade Tosi che si deve occupare di sport. Funge da segretario provvisorio Aldo Fior. Il nascente Aus chiede aiuto al commissario facente funzioni di Rettore, Concetto Marchesi. Alberto Pettinella, già addetto allo sport ai tempi dei Gruppi Universitari Fascisti e che per mezzo secolo sarà l’anima del Cus Padova, torna alla ribalta il 1 ottobre, sempre del 1945. In occasione di un’animata assemblea studentesca Ennio Ronchitelli riesce a fargli affidare il settore sport nonostante qualcuno rinfacciasse a Pettinella la vecchia appartenenza ai Guf. Ma Ronchitelli ben conosce la tempra e le grandi capacità di questo ragazzo che la guerra ha minato nel fisico, non certo nel carattere. C’è da fare tutto, soprattutto organizzare. E Alberto Pettinella in questo è davvero un maestro. È lui il 22 marzo 1946 a far arrivare a Padova i rappresentanti di sette Università italiane, più altri sei per delega. La storica riunione che sancisce la nascita del Cus Padova e del Cusi (Centro Sportivo Universitario Italiano) si svolge nell’aula Trentin di Giurisprudenza. Inizia una fantastica avventura che vede il Cus Padova portare ai vertici dello sport italiano centinaia di donne e uomini, campioni veri.
Da Casa del Fascio (mai utilizzata), a cinema parrocchiale, a biblioteca comunale
Nel Padovano Andrea Viviani recupera un’opera realizzata da Quirino De Giorgio negli anni quaranta
PIAZZOLA SUL BRENTA (PADOVA). Dopo venticinque anni di parziale abbandono, e scarsissima manutenzione, risorge a nuova vita la Casa del Fascio progettata da Quirino De Giorgio nel 1938, grazie alla realizzazione della nuova biblioteca del comune padovano inaugurata il 16 giugno (su progetto di Andrea Viviani), nel quadro della realizzazione per tappe del Centro culturale Andrea Mantegna. Progettato nel 1938 e realizzato tra il 1940 e il 1946, l’edificio non è mai stato utilizzato per la sua funzione originaria, per ovvii motivi. Basato su di un impianto a L che maschera così lo scarso spessore dei due corpi, affacciati uno a nord e l’altro a ovest, con un porticato colonnato che sembra applicato all’edifico, il progetto originario prevedeva una grande sala delle adunanze (a doppia altezza) nel corpo ovest e altri locali di servizio in quello nord, sviluppato su due piani (bar e abitazione del gestore). Nel punto d’intersezione delle due ali, gli spazi principali di collegamento verticali. L’edificio è entrato a far parte del patrimonio ecclesiastico nella seconda metà degli anni ’50; la grande sala è stata così trasformata in cinema parrocchiale (realizzando i locali tecnici per il sistema di proiezione e tamponando le aperture originarie sul fronte porticato), attivo fino agli inizi degli anni ’80, quando l’amministrazione comunale è diventata proprietaria degli spazi. L’intervento svuota la sala, ripristinando così sia il grande volume aperto sia le aperture originarie lungo il fronte ovest, predisponendola alla nuova funzione. L’adeguamento alla normativa antisismica impone l’inserimento di una gabbia metallica come struttura supplementare, motivo di approfondimento progettuale molto dettagliato, mentre le necessità funzionali suggeriscono l’apertura di un grande lucernario sulla porzione ovest del tetto. In particolare, il progetto recupera “gli assetti e le aperture previsti da Quirino De Giorgio liberando i volumi esterni e interni da tutte le superfetazioni, mantenendo comunque tracce della sua storia passata (è stato demolito il palcoscenico e il boccascena interno così come il controsoffitto in tavolato di cotto […] ma sono stati mantenuti i fori di proiezione aperti sul muro opposto), realizzando alcune memorie di cose che lui aveva pensato ma di cui non è rimasta traccia, come il podio sulla scalinata ovest che il progetto ha riproposto in due podi obliqui e distinti.” Il progetto della biblioteca s’inserisce nella cornice d’interventi destinati alla cultura che l’amministrazione comunale sta effettuando, che comprendono anche la costruzione di un nuovo auditorium, a nord-est dell’edificio di De Giorgio, oltre che la sistemazione degli spazi esterni di collegamento con la grande piazza semicircolare prospiciente Villa Contarini. Dopo un’iniziale ipotesi di mantenimento della funzione cinematografica, il tema si è trasformato: “Il progetto vuole invece ricavare negli spazi del vecchio edificio una moderna biblioteca, ricca di sale letture aperte alla stampa locale come a internet. La costruzione di un nuovo edificio da adibire ad auditorium polivalente, a doppia sala, sarà in grado di soddisfare la richiesta di film, ma anche la necessità di svolgere convegni, mostre, performance teatrali e musicali, in uno spazio concepito unicamente per tale scopo”. Nell’ex cinema troveranno spazio, oltre alla Biblioteca, referente delle 11 biblioteche del bacino bibliotecario locale, altre funzioni pubbliche: centro pubblico di connettività, informagiovani, spazio ludoteca, emeroteca e aula studio. L’ala restaurata è stata completamente isolata termicamente dall’interno, adeguandosi alle norme della legge 10 sul consumo energetico; è stato realizzato un impianto di riscaldamento/raffrescamento a pavimento (il quale è in legno industriale) con caldaia a condensazione a basso consumo. Le vetrate sono tutte a camera, di tipo ibrido stop sol / basso emissive. I lavori, dall’importo di 1,2 milioni, sono stati sostenuti dall’amministrazione comunale e da un contributo della Fondazione della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo (500.000 euro).
di Julian W. Adda, edizione online, 24 giugno 2013
altri riferimenti in rete
http://www.ilgiornaledellarchitettura.com/articoli/2013/6/116778.html
http://europaconcorsi.com/albo/21-Ordine-degli-Architetti-Pianificatori-Paesaggisti-e-Conservatori-della-provincia-di-Pordenone/projects/19951-Stefano-Santarossa-Luciana-Copat-Michele-Biz-Roberto-Pilat-Gaya/images/629700
http://www.artefascista.it/pordenone__arte__italiana__del.htm